Discussione generale
Data: 
Martedì, 25 Novembre, 2025
Nome: 
Antonella Forattini

A.C. 2528

Grazie, signora Presidente. Colleghe e colleghi, quando parliamo di violenza maschile contro le donne dovremmo sempre tornare all'articolo 3 della Costituzione: non solo il primo comma, che tutti conosciamo, ma il secondo, quello che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Ecco, la violenza maschile contro le donne è uno di quegli ostacoli, uno dei più duri, dei più radicati, dei più dolorosi.

E oggi siamo chiamati, ancora una volta, a misurarci con esso. Siamo quasi a fine anno e, come ogni anno, ci ritroviamo a fare un bilancio terribile, un bilancio fatto di nomi e di numeri; un numero che cresce, un numero che non riusciamo a fermare. Siamo alla fine del 2025, e anche quest'anno ci troviamo davanti ad un bilancio terribile; 76 donne uccise da partner, ex partner o uomini che pretendevano un rapporto e, tra queste storie, ci sono ragazze giovanissime che ci interrogano in modo ancora più diretto: Martina Carbonaro, 14 anni, uccisa dall'ex fidanzato Alessio, 18 anni, che ha confessato: l'ho uccisa perché mi voleva lasciare; Ilaria Sula, 22 anni, studentessa, uccisa dall'ex fidanzato di 23 anni; Sara Campanella, anche lei di 22 anni, uccisa da un ragazzo di 26, che aveva respinto.

Non si tratta di casi isolati. Il fenomeno della violenza di giovani uomini ai danni di giovani donne segnala un profondo impoverimento dei valori, che sono alla base della convivenza civile, a favore della violenza e della prevaricazione. Dinamiche, queste, che alimentano anche i fenomeni di bullismo e gli agguati compiuti da bande giovanili di cui si rendono colpevoli sempre più ragazzi e ragazze in giovanissima età. In mancanza di un'educazione strutturale all'interno della scuola, questi ragazzi hanno interiorizzato modelli conosciuti nei propri ambienti di riferimento.

E, allora, la domanda che molti colleghi hanno già posto è inevitabile: questo disegno di legge può davvero presentare un deterrente? Lo dico con sincerità: se un uomo o un ragazzo decide di uccidere e poi togliersi la vita, quale pena più alta potrebbe fermarlo? La risposta è: nessuna. Ma questo non significa che il provvedimento non abbia valore. Significa che non può essere l'unico pilastro.

Vorrei ricordare un precedente fondamentale della nostra storia parlamentare: il primo disegno di legge sulla violenza sessuale nel 1979. Ci vollero vent'anni per arrivare alla riforma finale; vent'anni di paure, dubbi, resistenze. Poi, finalmente, una convergenza: quella legge non risolse il problema, ma cambiò il senso comune.

E credo che oggi siamo in una situazione analoga, stiamo compiendo un passo importante che può modificare il modo in cui la società guarda alla violenza di genere. C'è un punto che dobbiamo affrontare apertamente. Il nostro codice penale si è sempre presentato come neutro. Per decenni, abbiamo trattato la legge come se fosse neutra, mentre, invece, rifletteva un immaginario maschile. Lo dimostrano formule del codice penale che nominano l'offesa femminile come “cittadino”, perfino, appunto, nel caso delle mutilazioni genitali. Non è un dettaglio linguistico, è la prova di un impianto che rendeva le donne invisibili, proprio quando erano le sole vittime.

Oggi, introduciamo, finalmente, la parola “donne” nel codice in relazione a una specifica forma di violenza. È un gesto simbolico e culturale, oltre che repressivo, e va riconosciuto che su questo c'è stato un passo avanti della maggioranza. Questo disegno di legge rafforza la repressione: nuovi reati, nuove aggravanti, misure cautelari più rigide, più confische, più obblighi informativi. Il lavoro svolto al Senato e in Commissione, grazie al contributo importante dato dal Partito Democratico, ha migliorato in modo significativo il testo originario. Sono stati recepiti molti emendamenti qualificanti, come il rafforzamento della formazione obbligatoria per i magistrati che trattano casi di violenza domestica e di genere, il superamento del limite dei 45 giorni nelle intercettazioni, la tutela estesa agli orfani, anche in assenza di stabile convivenza, l'accesso ai centri antiviolenza per le vittime minorenni di almeno 14 anni senza preventiva autorizzazione dei genitori, il potenziamento del braccialetto elettronico, ora operativo entro un raggio di mille metri.

È un impianto robusto dopo il reato, ma manca completamente il prima. Non c'è un articolo, non uno, che intervenga sui modelli relazionali, sulla gestione delle emozioni, sugli stereotipi, sul modo in cui crescono i bambini e gli adolescenti. E senza questa parte il rischio è che tra un anno saremo di nuovo qui a contare le vittime di femminicidio.

Chiunque lavori sul campo, lo ripete da anni: la violenza maschile non nasce nell'atto, nasce molto prima, nell'infanzia, nei modelli culturali, nei codici familiari, nelle prime relazioni affettive. Nasce nel modo in cui un bambino impara cosa significa rifiuto, nel modo in cui un ragazzo impara cosa significa libertà, nel modo in cui gli stereotipi plasmano ruoli, aspettative e potere. Senza un intervento in questa fase, nessun ergastolo potrà mai fermare un femminicidio e fare da deterrente.

La domanda scomoda è questa: perché non riusciamo a dire educazione affettiva? Questo stesso testo, nell'articolo 6, introduce campagne scolastiche sulla prevenzione dell'uso di sostanze stupefacenti collegate alle aggressioni sessuali: va bene, è giusto. Ma allora perché riusciamo a parlare di droghe e non riusciamo a parlare di relazioni? Perché riusciamo a parlare di chimica, ma non di emozioni? Perché si può educare alla prudenza, ma non al consenso? Perché abbiamo paura di pronunciare queste due parole: educazione affettiva? Eppure, è lì che il fenomeno nasce, è lì che dobbiamo intervenire.

Se crediamo davvero che l'articolo 3 obblighi la Repubblica a rimuovere gli ostacoli, allora dobbiamo lavorare alla radice culturale. Per questo, oggi chiedo che si apra un lavoro parlamentare chiaro, serio, strutturato, per introdurre un percorso nazionale di educazione sessuo-affettiva obbligatoria, a partire dalla scuola primaria, costruito con esperti, calibrato sull'età e rivolto ai maschi, soprattutto ai maschi. Non è ideologia, è prevenzione.

Signora Presidente, questo disegno di legge è un passo avanti: riconosce una specificità, che finora era stata ignorata, e finalmente la iscrive nel codice penale. Ma non possiamo far finta che questo basti. La repressione serve, ma arriva quando la violenza è già esplosa. La vera battaglia si combatte prima, nella cultura, nell'educazione, nelle relazioni, nella scuola. Il reato di femminicidio è una porta che si apre. La scelta politica che ci attende è decidere se vogliamo finalmente attraversarla e cambiare davvero il futuro delle prossime generazioni.